La Villa del Venerdì è un racconto breve, scritto da Alberto Moravia nel 1990.
Narra la storia di Stefano e Alina, che decidono, come per gioco, di trasformare il loro matrimonio in una coppia aperta. Nei suoi "giorni di libertà" Alina allaccia un'intensa relazione con Paolo, un pianista. Stefano, tormentato da una gelosia ossessiva al punto da fargli spiare i due amanti, architetta un omicidio.
qui vi propongo i due estratti in cui si parla della della sculacciata che Alina prenderà.
Stefano esce sulla terrazza e infatti Alina è lì, seduta nella sdraia, le lunghe gambe distese nella stretta guaina rossa, i piedi accavallati sotto i volanti.
Allora cerca di nascondere la propria gioia e le domanda con tono di moderata sorpresa: “Toh, sei qui? Ma si può sapere che cosa è succeso?”
Lei comincia subito a parlare come ansiosa di confidarsi: “E’ successo qualcosa che ci ha sconvolti a tale punto che abbiamo deciso, d’accordo, di anticipare il mio ritorno per meglio riflettere tutti due.”
“Non capisco. E’ successo qualche cosa per cui sei tornata a casa per riflettere. Ma che cosa? Qualche cosa di negativo?”
“Non proprio- certo qualche cosa di nuovo.”
“Di nuovo?”
“Sì, qualche cosa che non era mai successo e che non avevamo mai preveduto che poteva succedere.”
“Ma che cos’è?”
“No, non posso dirtelo. Ti basti sapere che ho provato con lui qualche cosa che non avevo mai provato con nessuno.”
“Nemmeno con me?”
“Con te meno che mai. Ma non farmi parlare. Posso soltanto dirti che per tutti due è stato come esplorare un territorio sconosciuto. E’ stata una scoperta e siamo tutti due sconvolti.”
“Addirittura una scoperta? E che sarà mai!”
“Tu, certe cose non puoi capirle.”
“Ah, sì, e perché poi?”
“Perché vuoi spiegare tutto, definire tutto, rendere tutto chiaro e razionale. E invece non è così. Tutto è oscuro e, se vogliamo, folle.”
“Ma insomma che cosa è successo?”
“Non posso dirlo, è una cosa tra me e lui.”
“Va bene, non dirlo ma allora stiamo zitti e guardiamo al mare.”
Ma Alina è tornata con un giorno di anticipo non tanto per riflettere quanto per confidarsi. E infatti, dopo un lungo silenzio, alla fine riprende: “Se mi prometti di non fare i soliti commenti pieni di sufficienza, allora te lo dico.”
“Va bene, niente commenti. Dunque che cosa è successo?”
“Mi ha battuto.”
“Ti ha battuto?”
“Sì, battuto, picchiato, percosso.”
“Ma allora tu devi assolutamente smettere di vederlo.”
“Ma no, come il solito non capisci nulla. Basta, non parlo più.”
“Via, come non detto, parla.”
“Forse non mi sono spiegata bene. E’ andata così. Quando mi hai telefonato dal bar Mimosa dicendomi che volevi vedermi, io ero appena arrivata. Lui, impaziente come il solito, mi era già saltato addosso e, insomma, stavamo già per fare l’amore. Ma io non avevo tanta voglia. Da qualche tempo non mi divertivo più tanto perché lui, con quel suo andare avanti indietro dentro di me, non la finiva più e io ad un certo punto mi distraevo e pensavo ad altro. Così, in fondo, sono stata quasi contenta che tu mi abbia telefonato e, come ti sarai accorto, non ho avuto nessuna difficoltà a raggiungerti al bar. Davvero, come ti ho detto, ho avuto l’impressione che si fossero scambiate le parti e che tu fossi diventato l’amante e lui il marito. Bene. Quando sono tornata alla villa e sono entrata nel soggiorno, non mi sono accorta che lui, fuori di sé per l’impazienza, mi aspettava nascosto dietro la tenda. Sono andata al divano, tutto ad un tratto lui si avvicina alle spalle e invece di abbracciarmi, farmi stendere e, poi, come le altre volte, prendere ad accarezzarmi dolcemente e, debbo dirlo, noiosamente, ecco mi acciuffa per i capelli, mi sbatte sui cuscini, mi applica una mano sulla faccia e mi preme con tutta la sua forza la palma sulla bocca e le cinque dita sul naso e sugli occhi quasi volesse accecarmi. Intanto mi spinge l’altra mano tra le gambe e mi afferra per il pube, come se volesse strapparlo. La mano che mi manteneva la testa affondata nei cuscini mi imbavagliava; le dita quasi mi spingevano gli occhi fuori dalle orbite; l’altra mano mi torceva e straziava il sesso. Soprattutto, lui faceva tutto questo con una violenza terribile, spietata, nuova in lui, che, finora, come ti ho detto, era stato, se vogliamo, fin troppo rispettoso e gentile.”
“Allora?”
“Allora, improvvisamente non so davvero cosa mi è successo. Invece di morderlo, di graffiarlo, di dargli un calcio nello stomaco come avrebbe fatto qualsiasi donna al mio posto, ecco che prendo a baciargli quella stessa mano con la quale mi schiaccia la faccia sui cuscini.”
“Ma come hai potuto farlo visto che, secondo le tue stesse parole, ti imbavagliava.”
“Sì, mi imbavagliava, ma non tanto che non potessi leccargli gli interstizi tra le dita, ma lo sai perché?”
“Cosa vuoi dire?”
“Perché lo facevo? Perché sentivo con assoluta sicurezza che quell’uomo mi amava, veramente mi amava, proprio d’amore, sì, di vero amore e questo per la prima volta da quando ci conosciamo che è ormai un anno.”
“Immagino che anche lui avrà a avuto la stessa sensazione che tu lo amavi davvero, di vero amore.”
“Infatti, l’ha avuta, me l’ha detto il giorno dopo. Subito dopo, però, si è vergognato, si è pentito della sua violenza. Si è gettato ai miei piedi e mi ha chiesto perdono, promettendo che non l’avrebbe fatto mai più. Anche io mi vergognavo, ma meno di lui, forse perché, dopo tutto, ero stata io a subire la violenza e lui non poteva immaginare che mi fosse piaciuta. Così ci siamo giurati l’uno all’altro che sarebbe stato la prima e l’ultima volta. Eravamo in buona fede, eravamo davvero pentiti, tanto è vero che lui, quella stessa notte, ha avuto verso di me un contegno così tenero e delicato che quasi mi pareva impossibile che fosse lo stesso uomo che poco prima era stato così brutale e spietato.”
“Molto interessante. Il giorno dopo, che cosa è successo perché tu sia tornata a casa così in anticipo?”
“Il giorno dopo, che è oggi, abbiamo fatto la solita vita senza affatto parlare di quello che era accaduto la sera prima. Siamo stati tranquilli, sereni, distesi; eravamo sicuri che non avremmo mai più fatto l’amore nel modo, diciamo così, violento. Poi, poco prima di cena, lui si è seduto al pianoforte e ha preso a suonare. Ha suonato quella nenia insistente, orientale, il Bolero di… Come si chiama l’autore?”
“Ravel.”
“Ecco, bravo, Ravel, che è già così incalzante e lui lo suonava quasi con rabbia. Mi avvicino, gli pongo un braccio intorno le spalle, così, per tenerezza. D’improvviso, che è che non è, smette di suonare, fa fare un giro allo sgabello e con un solo strattone mi piega giù, bocconi, sulle sue ginocchia. Non mi ero ancora vestita, avevo fatto or ora la doccia, e mi ero infilato un accappatoio, corto. Lui mi tira su l’accappatoio, mi tiene giù la testa con una mano sul collo, e con l’altra prende a battermi. Erano le stesse mani con le quali aveva poco fa suonato il pianoforte, lievi, delicate, sensibili, ma adesso parevano di ferro.”
“Che intendi per battere?”
“Quello che si fa qualche volta ai bambini per punirli di qualche cosa che non dovevano fare.”
“Ho capito. In buon italiano chiama sculacciare.”
“Sì, lo so che si dice così. Ma è una parola, come dire?, comica che non rende affatto la sensazione che provavo.”
“E che sensazione era?”
“Dico sensazione, ma dovrei dire anche sentimento. La sensazione è stata prima di dolore, te l’ho già detto, come se la mano fosse di ferro. Poi, il dolore, non so come, si è cambiato in un grande calore dolce che dal fondo delle schiena mi arrivava su su fino alle guance.”
“E il sentimento?”
“Il sentimento, quello non si può descrivere.”
“Perché?”
“Perché è un sentimento d’amore. L’amore non si descrive, si prova.”
“Se l’hai provato dovresti sapere descriverlo.”
“Ma, non so, di sottomissione, di ubbidienza, di pentimento.”
“Pentimento di che cosa?”
“Ecco il punto. Di tutto e di nulla. Lui mi puniva, io sapevo benissimo che non avevo fatto nulla di male eppure mi pareva giusto che mi punisse. Tant’è vero che ad un colpo più forte degli altri, figurati, gli ho gridato: “Non lo farò più, ti giuro che non lo farò più”.”
“E questo lo chiami amore?”
“Sì, è amore perché, mentre lo facevamo, sentivo che l’amavo e che lui a sua volta mi amava. Era un amore nuovo che non avevo mai provato prima con nessuno. Senza volerlo, come ti ho detto, per puro caso, in fondo per merito tuo che sei venuto a cercarmi, abbiamo scoperto una maniera nuova di amarci.”
“Lo sai che cosa avete scoperto?”
“Eccoti, con le tue definizioni. Non lo so e non voglio saperlo. So soltanto che ci amiamo e mi basta.”
“Avete scoperto tu il masochismo, lui il sadismo.”
“Lo vedi, non sei capace di capire certe cose e allora ricorri agli insulti.”
“Non è un insulto, sono due maniere di amare complementari e dipendenti l’una dall’altra.”
“no, è un insulto. Si dice comunemente: sei un masochista, sei un sadico, per dire: sei un degenerato. Io invece ho sentito che io non ero masochista e che lui non era sadico e che quello che facevamo era vero amore. Un amore come questo, tra noi due, non c’era mai stato.”
“Grazie a Dio!”
“E’ inutile che fai dell’ironia. Tu, certe cose, non puoi capirle. Sei troppo intellettuale, troppo fatto sui libri. Non sai che cosa è veramente l’amore.”
“Che cosa è l’amore?”
“E’ qualsiasi cosa, magari dire delle parolacce. Tu ieri mi hai dato della mignotta ed era amore. Lui, magari, uno di questi giorni, mi dirà anche lui la stessa parola e sarà di nuovo amore.”
Ora, per la sceneggiatura a cui sta lavorando e che racconta la storia del rapporto edipico tra una madre e un figlio, Stefano si è portato dietro al mare una piccola enciclopedia psicanalitica. Adesso salta su dalla sdraia e corre nel soggiorno. Il libro è là,nello scaffale, Stefano lo prende, torna sulla terrazza, e alla luce della lampada infissa nella parete della villa, sfoglia in fretta e furia il volume, quindi legge ad alta voce: “l’importanza della coppia nel sadomasochismo super ampiamente il piano delle perversioni. Il sadismo e il masochismo occupano, tra le perversioni, un posto speciale. L’attività e la passività che ne formano i caratteri complementari e opposti sono costitutivi della vita sessuale.”
Per la prima volta da quando ha stretto il patto con Alina, Stefano è quasi felice. Gli pare di essere il più forte; di librarsi con la sua enciclopedia al di sopra del delirio della gelosia. Alina tace. Trafelato, lui conclude: “Come vedi, non è un insulto. E’ soltanto il nome che bisogna dare alla vostra pretesa scoperta. E questo nome è: sadomasochismo.”
“Già, avremmo scoperto una perversione, eh! E allora spiegami perché subito dopo questa cosiddetta perversione, abbiamo fatto così bene l’amore e io ho provato tanta tenerezza e affetto per lui, e gli ho baciato le mani, e, se vuoi proprio saperlo, anche i piedi. Sì, mi sono buttata carponi e gli ho baciato i piedi.”
“E allora, tu dimmi perché sei tornata un giorno prima. Cosa sei tornata a fare?”
“Sentivo il bisogno di riflettere, magari di confidarmi con te. Ma ho fatto male, malissimo. Tu mi hai disgustata con la tua freddezza, le tue definizioni. Guarda, avevo intenzione di passare la domenica con te, ma ci ho ripensato e torno da lui. Ciao, leggiti il tuo libro, ci vediamo domani sera.”
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Appena giunge sulle dune, si volta a guardare e vede subito la villa, lassù, un grande rettangolo oscuro con una sola finestra illuminata. Non c’è ancora la luna, ma se ne indovina la presenza perché la notte è chiara. Inoltre quella gialla luce tranquilla della finestra illuminata gli permetterà di giungere alla villa senza difficoltà.
Pensa che forse in quel momento i due amanti stanno facendo il loro amore oltraggioso e manesco; forse l’uomo sta sculacciando Alina. Si dice che questa scena ridicola è probabilmente ciò che si nasconde dietro la luce così calma e rassicurante della finestra. Ma si accorge che questa immaginazione non ha nulla di comico. Al contrario, gli fa sentire di nuovo più preciso e più insopportabile il senso di un incubo che ormai dura da troppo tempo e che il colpo di pistola dissiperà.
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